Impugnazione dell’ordinanza decisoria del giudizio sommario di cognizione: termine breve o termine lungo?
Come noto, il procedimento sommario di cognizione previsto e disciplinato dall’art. 702-bis c.p.c. si conclude con ordinanza e non con sentenza.
L’impugnazione di questo provvedimento è specificamente regolata dall’art. 702-quater c.p.c.: perché la decisione non cada in giudicato, è necessario promuovere appello entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione.
Ci si può domandare però se, in assenza di comunicazione da parte della cancelleria (non dovuta al contumace!) o di notificazione da parte del soggetto interessato, si applichi anche con riferimento a questa ordinanza il regime di decadenza dettato dall’art. 327 c.p.c. (che per la sua collocazione sistematica si riferisce alle impugnazioni in generale).
Se da un lato la previsione del “termine lungo” decadenziale (sei mesi), per quanto appunto applicabile a tutte le impugnazioni, appare a prima vista ovviamente operante anche in relazione all’ordinanza resa ex art. 702-ter c.p.c., dall’altro lato un dubbio si giustifica in ragione del fatto che l’art. 327 c.p.c. parli però di “pubblicazione della sentenza” per individuare il termine a quo: mentre il giudizio sommario di cognizione non è definito con sentenza né – a rigore – “pubblicata” (seppure il deposito sia equivalente).
Tant’è che quel dubbio è stato avvertito dalla Corte di Cassazione.
La Terza Sezione, nel 2018 (cassazione-civile-III-16893-2018) lo ha risolto proclamando pacificamente applicabile l’art. 327 c.p.c., quindi la soggezione dell’impugnazione dell’ordinanza de qua al termine decadenziale lungo decorrente dalla pubblicazione.
All’apparenza in senso contrario si è espressa la Seconda Sezione della Corte nel 2019 (cassazione-II-30850-2019) con sentenza la cui massima ufficiale recita: <<L’errato “nomen juris” di sentenza attribuito al provvedimento conclusivo di merito con cui viene accolta (o rigettata) una domanda proposta ai sensi degli artt. 702-bis e ss. c.p.c., all’esito di un giudizio interamente svoltosi secondo le regole del procedimento sommario di cognizione, senza che risulti una consapevole scelta del giudice di qualificare diversamente l’azione o di convertire il rito in ordinario, non comporta l’applicazione del termine d’impugnazione di sei mesi, previsto dall’art. 327 c.p.c., restando comunque l’appello soggetto al regime suo proprio di cui all’art. 702-quater c.p.c.>>. All’apparenza, dicevamo: nella fattispecie, invero, la decisione di sottrarre l’ordinanza al regime ordinario di impugnazione nel termine semestrale dipendeva prevalentemente dal fatto che il provvedimento (erroneamente emanato in forma di sentenza) era stato comunicato alla parte appellante, circostanza questa che – se irrilevante ai fini della decorrenza del termine breve di impugnazione delle sentenze – costituisce invece il dies a quo per l’appello dell’ordinanza sommaria (nel caso concreto quindi dichiarato inammissibile).
Dunque, sulla carta a ben vedere nessun contrasto di orientamenti. Tuttavia, qualche dubbio permane. E se anche si può essere ragionevolmente convinti che la collocazione sistematica della norma che prevede la decadenza nel termine “lungo” implichi la sua operatività anche in relazione all’ordinanza resa in esito a giudizio sommario, forse potrebbe ritenersi opportuna una pronuncia delle Sezioni Unite che detti una interpretazione certa in funzione di una maggiore certezza del diritto (sommamente auspicabile in tema di impugnazioni e quindi di stabilizzazione dei provvedimenti decisori).